Il rischio di certe affermazioni è che passino per qualunquiste, sempliciste o populiste.
Vallo a spiegare a chi ci amministra che sono invece considerazioni da cui prendere spunto per migliorarsi e migliorare.
È chiaro che quando si parla della vita di un defunto si rischia di passare per pazzi.
Tutte le volte che vado al cimitero a fare visita alla tomba di mia mamma e dei nonni mi guardo intorno e provo un senso di tristezza. Che si aggiunge alla mancanza degli affetti, lentamente ammorbidita dal tempo, mai comunque annullata.
Il camposanto non deve essere un luogo abbandonato.
Non lo è per definizione e non lo è mai stato nei millenni: dai riti primitivi, pagani, cristiani, ad ogni latitudine del globo e in ogni tempo della storia si parla di culto dei morti.
La parola culto ha un preciso riferimento semantico: sta a significare cura, attenzione e si dipana attraverso una serie di atti e cerimonie che accompagnano il distacco, le esequie e il poi.
Quest’ultima fase sembra essere dimenticata da chi gestisce i cimiteri comunali.
Il poi.
Salvo gli interventi di facciata che precedono il due di novembre (anche quelli sempre più spediti e approssimativi) i restanti periodi dell’anno sono esenti da manutenzione ordinaria.
Nello specifico, il piccolo cimitero di San Bartolomeo del Bosco, sulle alture di Savona, non ha un addetto da parecchi anni: l’ultimo incaricato ai servizi cimiteriali è andato in pensione da tempo e il servizio è stato appaltato ad una cooperativa.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Dei defunti che non hanno voce – e molti di loro neppure parenti che ne curino la tomba – e dei vivi che constatano l’indecenza crescente, mese dopo mese.
Allora mi pongo un quesito qualunquista, semplicista e vagamente populista: ma se non c’è rispetto per i morti, possiamo pretendere il rispetto per i vivi?
RispondiInoltra |